Storie dell’Appennino
Storie 21 Gennaio 2020Storie dell’Appennino #1
Di cosa è fatto un territorio?
Ce lo siamo chiesto molte volte mentre eravamo al lavoro sulle mulattiere, e sono stati proprio i sentieri ad offrirci un’interessante chiave di lettura. Un territorio è fatto di relazioni.
Oggi che si fa un gran parlare di “connessioni”, ma intanto si innalzano muri e si vive e ci si muove come tanti piccoli atomi, ci sembra importante rispolverare il senso profondo dei “nessi” intesi come tratti di unione, collante di una comunità. Un territorio sono i suoi abitanti: a dargli un’identità è proprio questo magico ecosistema di piante, animali ed esseri umani. Un tutto indivisibile che contiene più della somma delle parti, un tutto che vive di relazioni. Capiamo allora che il modo migliore per esplorare e conoscere i sentieri è quello di conoscere chi li percorre e li ha percorsi nel tempo. Cosa facevano i nostri nonni lassù? Dove andavano? Come vivevano i loro paesi? Come possiamo viverli oggi, nel rispetto del loro ecosistema?
Per trovare risposte alle nostre curiosità, abbiamo recuperato una serie di interviste a donne e uomini proveniente dei paesi dell’Acquasantano, che ci raccontano storie dell’appennino, fotografandone i cambiamenti.
Grazie ai ricordi di Vittorio (nato nel 1925 e intervistato nel 2013 all’età di 88 anni) scopriamo qualcosa di più su questa terra e il nostro recente passato.
A Cagnano c’era un frantoio che faceva l’olio…
La macina veniva girata da un asino. Il sapone si faceva in casa con gli “scarti” del maiale e la soda e bisognava stare attenti a non sprecarlo perché ce ne era poco. A differenza di Paggese a Cagnano non ci sono le scritte fuori le abitazioni. Ci sono invece molte grotte e pertugi scavati nella roccia.
Ci si aiutava tutti insieme, come nella trebbiatura o quando si puliva il granoturco: ci si riuniva in 10- 15 la sera e alla fine dei lavori si festeggiava tutti insieme. Altre volte si andava a zappare anche i terreni di proprietari fuori del paese e si restava a dormire tutti insieme nelle pagliare su letti di fortuna di paglia.
Si diceva il rosario tutte le sere. Importanti erano le preghiere per i morti e per i Santi. Mia moglie sa anche togliere l’invidia ma solo con l’olio: è un procedimento che viene imparato e tramandato rigorosamente solo la notte di Natale.
Poi c’era la ricorrenza di San Giuseppe detta la festa dei lupini. Veniva la banda, si giocava e si ballava. Sotto le piante di ulivi si mangiava e si stava insieme. Si giocava a morra soprattutto, ma anche a la passatella, a bocce.
La sera davanti alla luce delle lampade a olio ci raccontavamo le storie.
Si raccontava delle “paure” che facevano spaventare i bambini. Se si sentiva un rumore particolare si pensava fosse la “paura”. Al tempo non c’era la luce, era tutto scuro, buio, indefinito. Al bivio prima del campo sportivo per esempio, c’è una strada di campagna che sale e in quel punto tutti dicevano che c’era la paura. Una volta, da piccolo, ci passai in quel punto di sera e con la luce della luna intravedi una cosa nel buio e mi spaventai pensando che fosse la paura; in realtà era solo un sacco di granoturco messo per dritto.
Nella colonia prima ci andavano i ragazzini durante il periodo fascista (1937-38) poi ci si stanziarono i fascisti e i tedeschi. C’era un comando. Nel 1943 mi arrivò la cartolina per partire come militare ma il giorno dopo scappai e per 9 mesi si diede alla macchia coi partigiani. Non trovandomi, i fascisti, insieme ai nazisti, presero la madre dello Scattolini e la portarono nel campo di concentramento di Servigliano. Presero anche i genitori di altri imboscati della zona e solo quando si consegnavano alle autorità militari allora i genitori venivano rilasciati. A Natale del ’43 rimandarono i prigionieri a casa per le feste, compresa mia madre, ma fece cosi tanta neve che bloccò la Salaria. Nel comando tedesco in Ascoli qualcuno aveva fatto la spia e aveva fatto il mio nome e quello delle persone che mi tenevano nascosto. I tedeschi entrarono nella casa indicata dalla spia dove mi rifugiavo; i tedeschi mi chiesero di che anno fossi ma tra una cosa da mangiare e una da bere tutti convinsero i nazisti che Vittorio era ancora solamente “nu frechì”.
Prima c’erano tutti vigneti, i campi coltivati, i boschi si ripulivano ed erano curati, le mulattiere erano pulite e percorribili mentre ora invece è tutto in stato di abbandono. Andrebbe tutto rimesso a nuovo.
Grazie Vittorio, ci stiamo lavorando!
A presto con un altro assaggio di Storie dell’Appennino. Se volete inviarci le vostre, scrivete qui.
Si ringrazia Ecomuseo dalle Memorie al Futuro per l’elaborazione e la concessione delle interviste